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Gestire una RSA nella pandemia è organizzazione e altruismo: la storia della cooperativa Il Sicomoro

Intervista: Presidente Michele Plati

FotografiaGESTIRE UNA RSA NELLA PANDEMIA E' ORGANIZZAZIONE E ALTRUISMO: LA STORIA DELLA COOPERATIVA SICOMORO

La situazione di case di riposo, Rsa e residenze per anziani, nell’emergenza legata al Coronavirus, si sta facendo senza dubbio drammatica. Si assiste, però, da parte dei media, ad una sorta di criminalizzazione delle Rsa che rischia di oscurare anche l’eccellente lavoro svolto dai tanti operatori impegnati nelle strutture per anziani. Basti pensare all’attività di una cooperativa come quella de Il Sicomoro, salita agli onori della cronaca per un caso forse più unico che raro: tutti i 101 ospiti ed i 47 operatori della casa di riposo “Mons. Brancaccio”, gestita dall’impresa lucana, sono risultati negativi ai tamponi del Covid-19. Nata nel 2002, la cooperativa di Matera costituita da 15 soci lavoratori e sostenuta anche da CFI, opera essenzialmente nell’ambito dell’accoglienza ai migranti, dell’assistenza agli anziani, del sostegno ai minori e dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Della cooperativa, il cui fatturato nel 2019 è stato di 5 milioni di euro, e dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, abbiamo parlato con Michele Plati, presidente de Il Sicomoro.

Presidente Plati, come state affrontando questa emergenza?
Ci sentiamo come gli equilibristi che sanno di camminare su un sottile filo sospeso nel vuoto: al minimo errore, si cade. Credo che questo accomuni tutti coloro che lavorano nel nostro settore, siano essi operatori socio sanitari, mediatori culturali, infermieri, operatori dell’accoglienza, amministrativi. Tutti siamo consapevoli che possiamo sbagliare e tutti, d’altra parte, sappiamo che non ci è permesso sbagliare. Da un po’ di tempo, quando si parla di Rsa, mi sembra che ci sia in corso una specie di caccia alle streghe. Penso, invece, che coloro che si occupano di cura alla persona e cura agli anziani costituiscano per il nostro Paese un importante serbatoio civile di buone energie, di generosità, di abnegazione. Sacrificare tutto questo per trovare un capro espiatorio mi pare alquanto autolesionista.

Non si può negare, però, che in regioni come la Lombardia e il Piemonte quella delle residenze per gli anziani sia diventata un'emergenza nell'emergenza. Perché è successo? Che spiegazione si è dato?
Non ho elementi e non posso giudicare il lavoro dei colleghi. Credo che una catastrofe come quella che stiamo vivendo non ci può legittimare a “fare i maestrini” con nessuno. Non posso, però, non notare che molto spesso la tipologia del soggetto che gestisce la struttura influisce moltissimo sulle scelte che vengono effettuate. Io sostengo, da tempi non sospetti, che i servizi di cura alla persona sono per loro natura “no profit”; è in questi servizi che il Terzo Settore opera nel migliore dei modi e l’emergenza Coronavirus lo sta dimostrando. Voglio dire, insomma, che certe attività non possono essere demandate a soggetti che “istituzionalmente” devono ripartire gli utili di gestione. In tal senso, e mi riferisco ad alcune delibere molto discusse in questi giorni, scegliere di chiudere l’accesso a nuovi ospiti, rinunciare a contratti spesso milionari con le Aziende Sanitarie significava perdere fatturato: c’è chi se lo può permettere, perché abituato da sempre a bilanci magri, e chi no; chi non ha la pressione degli azionisti e chi ce l’ha.

Voi come siete riusciti a contenere i contagi?
Noi, ad oggi, non abbiamo avuto alcuna positività ai tamponi. Abbiamo avuto l’intuizione di chiudere l’accesso ai parenti dal 28 febbraio, ben prima che venisse dichiarato il lockdown, e abbiamo deciso di non accogliere alcun nuovo ospite in struttura dal 26 febbraio. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di difendere la salute degli anziani che erano già nella struttura, decidendo con rammarico di dire no alle tante richieste di chi ci chiedeva di entrare. Si può affermare che la nostra sia stata una decisione conservativa che, però, alla lunga ha pagato. Subiremo, senza dubbio, qualche contraccolpo dal punto di vista economico ma speriamo di portare la barca in porto: sappiamo, infatti, che la strada è ancora molto lunga e che i territori hanno l’assoluta necessità di un presidio come quello rappresentato dalle case di riposo. In questi giorni ho dovuto dire di no, e lo dico con enorme dispiacere, a persone che avevano bisogni reali, famiglie disperate che non si possono permettere tre badanti nell’arco delle ventiquattro ore e che solo in un presidio di assistenza agli anziani potevano trovare la risposta alle loro esigenze.

È difficile operare il distanziamento in una casa di riposo. Voi quali accorgimenti avete adottato?
Teorizzare il distanziamento nei servizi alla persona è veramente impossibile. La nostra cooperativa, dunque, ha agito su due fronti: da un lato, abbiamo cercato la collaborazione degli anziani autosufficienti che potevano essere uno dei probabili vettori del Coronavirus all’interno della struttura, chiedendo loro di non uscire (per fortuna abbiamo un parco molto grande e la passeggiata per sgranchire le gambe è assicurata entro i cancelli della casa di riposo…) e responsabilizzandoli come “uscieri” per impedire a chiunque di entrare; dall'altro, abbiamo ridotto o eliminato del tutto le attività comuni e abbiamo distanziato gli spazi in sala mensa. Per quanto riguarda gli operatori, poi, le riunioni per lo scambio di consegne sono previste in spazi ampi e le attività di formazione avvengono tramite supporti video. Questa organizzazione, però, ha purtroppo una controindicazione molto seria: la riduzione o eliminazione di contatti fra ospiti, con i volontari, con i parenti, influisce molto sulle capacità residue e avrà contraccolpi psicologici di difficile gestione sui più fragili.

Stiamo affrontando un momento di grande incertezza, in cui è sempre più difficile immaginare il futuro. Come si ripercuote tutto questo su una cooperativa come la vostra?
La confusione e l’incertezza che regnano nella Pubblica Amministrazione sono evidenti: regole che cambiano ogni giorno, scontri di potere, Regione contro Stato, Regioni contro Regioni, Comuni contro Regioni. Devo dire, però, che in questa situazione stanno reggendo bene i corpi intermedi e mi riferisco, in particolar modo, alle organizzazioni cooperative: siamo tutti vicini gli uni agli altri, in un momento nel quale non esiste distinzione fra storie, appartenenze, entità del fatturato. Siamo tutti un’unica cooperativa, tutti ci chiediamo come stanno gli altri e come ne usciremo; e, soprattutto, sentiamo le strutture dirigenti e di servizio più vicine che mai, mosse come sono da uno spirito che si può definire in un modo solo: altruismo.

Un’ultima domanda. Che cosa significa per voi, in un frangente come questo, essere una cooperativa?
Tra i soci cooperatori percepisco una grande voglia di combattere, di non rimanere inerti, di non arrendersi, di trovare nuove soluzioni, mettendo a disposizione le proprie competenze. Il nostro essere cooperativa è questo: la certezza che solo stando insieme supereremo la crisi in corso, il periodo assurdo che stiamo vivendo.

Andrea Bernardini